Casta diva

Granta Italia
(illustrato da Tomoko Nagao)

Quando uscii dall’ascensore, Sumiko era già sulla porta, indossava uno yukata corto, rosso e oro, e aveva i capelli raccolti in maniera disordinata. La trovavo eccitante. E non pensavo ad altro mentre mi mostrava la casa, occidentale nell’arredamento ma con la tipica struttura giapponese. L’odore di palude, dato dai tatami, aleggiava mite. Anche se la seguivo distratto non potei ignorare la presenza, in ogni ambiente, della riproduzione di un dipinto di Botero. Quei corpi dilatati mi colpirono. E quando riportavo lo sguardo sui fianchi sottili di Sumiko mi parevano ancora più desiderabili.

La cucina era in assoluto la stanza più vissuta, anche se ogni cosa era rigorosamente in acciaio, elettrodomestici compresi. Acciaio anti-impronta, precisò lei e, prendendomi per il polso, appoggiò la mia mano sul piano di lavoro dove non lasciò traccia. Tutto quel metallo gelido aveva qualcosa di chirurgico e sensuale. Sulla parete vicino al frigorifero un immancabile Botero: un’opulenta donna sdraiata con davanti un’arancia a spicchi. Senza ombre e con lo sguardo fisso nel vuoto.

Sumiko mi disse che la sera del nostro primo incontro a Osaka aveva ripensato all’Italia, alle vacanze che ci trascorreva da bambina. E alla pasta con le melanzane e la ricotta salata che mangiava con suo padre in trattoria sopra una tovaglia immacolata. Aveva cercato su internet e aveva comprato gli ingredienti perché io gliela preparassi. “Pasta alla Norma, proprio come l’opera, giusto?” Mi sorrise e, passandomi un braccio intorno alla vita, canticchiò a mezza voce «Caaasta diiivaaa». Le sue labbra sfiorarono le mie ma poi sfuggì.

 

Affettai le melanzane mentre lei preparava gli aperitivi, intanto chiacchieravamo del più e del meno, anche se parlavo molto di più io. Mi aiutò a spellare i pomodori. Avevamo entrambi le mani sporche e cotte dal liquido della verdura, lei strinse tra le dita il pomodoro facendolo schizzare ovunque. Rise, mi venne accanto e dopo avermi tolto un seme dalla barba mi baciò. Avrei dovuto farlo io. Aveva un sapore amarognolo e mi sembrava quasi che la sua lingua spingesse via la mia. Come se volesse ricacciarmela giù. Era eccitante, una piccola lotta. Appena le misi le mani sulle spalle per farle scivolare via lo yukata già leggermente aperto, lei si divincolò, buia in volto. Io rimasi interdetto, temetti qualche rimprovero. E invece non arrivò, lei mi sorrise, mi strizzò l’occhio e cantò di nuovo sorridendo «Caaasta diiivaaa».

In quel momento suonò il campanello: iniziavano ad arrivare i primi ospiti.

Gli invitati apprezzarono la cena. Quando se ne andarono, sul tavolo erano rimasti solo piatti sporchi e qualche avanzo. Sumiko, in compenso, non aveva toccato cibo per tutta la sera.

Glielo feci notare ma mi disse che non le piaceva mangiare e chiacchierare insieme e che poi, cucinando, aveva assaggiato tutto.

«Tranne la mia pasta» le dissi sorridendo.

«Ne è avanzata, la mangerò domani, non temere.»

«Ma come, hai scelto il piatto, mi hai detto che ti ricordava l’Italia e ora nemmeno l’assaggi? Almeno un paio di forchettate.» Mentre insistevo cominciai a mettere i maccheroni nel piatto. Mi guardò e mi parve sul punto di tirarmi uno schiaffo. Ma forse avevo solo bevuto troppo. Poi si sedette, prese una forchetta dal cassetto e mangiò. «È buonissima.» Lo disse come se la cosa, in qualche modo, le dispiacesse. Guardavo le sue labbra sporcarsi di pomodoro, la sua lingua abbassarsi per accogliere ciò che le avevo preparato. Questa volta fui io a baciarla e lei mi lasciò fare.

Iniziò a sbottonarmi la camicia e io le misi le mani sui glutei, sotto lo yukata.

«Arrivo subito, solo un istante.» Decisi di seguirla, immaginando di poterla guardare mentre si metteva qualcosa di provocante.

Dalla porta socchiusa del bagno intravedevo la sua figura riflessa nello specchio. Indossava un reggiseno color ocra; sterno e costole premevano sotto la pelle sottile. Vestita non mi era parsa così magra. Sentivo il mio pene gonfiarsi nei pantaloni e fui quasi tentato di entrare. Di non aspettare. Ma quando lei prese in mano lo spazzolino da denti mi arrestai pensando che forse non era il caso. Lo capovolse, impugnandolo per la parte con le setole. Aprì la bocca, e lo usò come un abbassalingua di quelli dei medici. Non si guardava allo specchio ma fissava un punto oltre le piastrelle. Lo sguardo vuoto come quello dei volti di Botero, finché gli occhi non le si riempirono di lacrime da sforzo e vomitò. Quasi in silenzio e con un movimento flessuoso. Come se fosse la cosa più naturale del mondo.

L’eccitazione svanì e mi sentii solo, lontanissimo da tutto ciò che mi era familiare. E poi quei corpi grassi che troneggiavano su ogni parete. La città frenetica che scorreva fuori. Desideravo solo allontanarmi. Senza toccare nulla, come se Sumiko avesse una malattia contagiosa.

Lei non premette subito lo scarico, rimase a guardare. Ma appena lo fece io raccolsi la giacca e, mentre l’acqua lavava via i resti della mia pasta italiana, infilai la porta e scesi le scale a due a due.

Fermai il primo taxi ma prima buttai nel cestino i preservativi che avevo comprato lungo la strada.

Casta Diva

Tomoko Nagao, Vibrator 2 (2008)